Infanzia

Sono nato il 9 gennaio 1933 nella Rhodesia del Nord, l’attuale Zambia, in Africa centrale.

A diciotto mesi, colpito dalla malaria cerebrale, delirai per dieci giorni. I medici dissero ai miei genitori che era meglio augurarsi che io morissi perché, se anche fossi sopravvissuto, avrei subito danni irreversibili al cervello. Nonostante le strutture mediche primitive dell’Africa di quei tempi, la loro prognosi  si è dimostrata corretta: sono sopravvissuto e ora sono un po’ matto. Il che è un bene: bisogna avere un pizzico di follia per procacciarsi il pane scrivendo romanzi.

Ho trascorso i primi anni della mia vita nel ranch di mio padre. Per parco giochi avevo 12.000 ettari (o se preferite 25.000 acri) di foresta, colline e savana. I miei compagni di giochi erano i figli di quelli che lavoravano al ranch, ragazzini neri con interessi e preoccupazioni identici ai miei. Primo fra tutti: evitare la disciplina e l’interferenza irragionevole degli adulti. Armati di fionda e accompagnati da un branco di cani bastardini vagavamo nella boscaglia, andando a caccia di uccelli e piccoli mammiferi. Poi li cucinavamo su falò improvvisati e li divoravamo con immenso gusto. Tornavo a casa la sera all’ora che mi andava, con le ginocchia nude graffiate e sanguinanti per le spine uncinate dei roveti, puzzando di legna bruciata e di sudore asciugato sulla pelle, martoriato dalle zecche che proliferavano tra gli arbusti.

Mi era concesso, di tanto in tanto, di viaggiare sul retro del camioncino di mio padre mentre badava agli affari di un allevatore di bestiame. Col tempo, dopo che lui mi aveva insegnato a non parlare troppo e a non essere “una rottura infinita”, mi è stato permesso di cavalcare con i pastori e di accompagnare il bestiame al bagno o alla marchiatura. Visto che diventavo sempre più utile, mi è stato gradualmente permesso di  trascorrere più tempo con lui.

Il mio vecchio era severo, un padre Vittoriano DOC. Se lo riteneva necessario, non esitava a sfilarsi la cintura e a darmi un assaggio della fibbia. Non mi lamentavo. Di solito me le meritavo, e un paio di sculacciate assestate sulle chiappe magre costituivano un piccolo prezzo da pagare per stare vicino a lui. Per me era Dio in terra. Lo adoravo.

Quando compii otto anni mi regalò un fucile a ripetitore Remington, calibro 22. Era appartenuto a mio nonno prima di lui, e aveva 122 tacche sul calcio. Mi insegnò poi a sparare in modo sicuro e a rispettare il codice d’onore del cacciatore. Presto sul calcio non c’era più spazio per le mie tacche.  È stato l’inizio della mia storia d’amore con le armi da fuoco, che dura da una vita.

Il precedente proprietario del fucile, mio nonno, aveva un magnifico paio di baffi macchiati solo leggermente dal tabacco. Poteva centrare la sputacchiera a cinque passi di distanza senza sbagliare mai la mira. Era così bravo a raccontare storie da far schizzare fuori dalle orbite gli occhi di un bambino di otto anni per la meraviglia. In gioventù era stato un potente Nimrod e un guerriero. Aveva comandato una squadra di pistoleri Maxim durante le guerre Zulu. Il suo nome era Courteney James Smith. Più tardi, presi a prestito il suo nome, Courteney, per l’eroe del mio primo romanzo, “Il destino del leone”.

Se il mio vecchio era Dio, mia madre era un angelo caduto del cielo. Mi proteggeva dalla rabbia di mio padre, fino a quando non si calmava. Mi ha insegnato ad amare tutta la natura. Mi ha aperto gli occhi alla bellezza selvaggia del mondo intorno a me. Era un’artista, e fino almeno all’età di 93 anni, ha dipinto ad acquerello alberi e animali.

Amava i libri sopra a ogni cosa. Prima che potessi leggere da solo mi ha insegnato a riverire i libri e la parola scritta. Ogni sera mi leggeva storie della buona notte, e queste sessioni divennero i momenti più belli delle mie lunghe, emozionanti giornate al ranch.

Grazie a lei sono diventato un lettore molto precoce. Ho iniziato con libri per ragazzi (‘Biggles’ e ‘Just William’). Ben presto sono passato ai romanzi di Cecil Scott Forester, Ryder Haggard e John Buchan. Da quel momento, ho sempre avuto un libro rilegato in tasca.

Secondo mio padre, la mia ossessione per i libri era innaturale e malsana. Ero costretto a leggere di nascosto. Trascorrevo così tanto tempo chiuso nella latrina, dove tenevo in segreto una pila dei miei libri preferiti, che mio padre intimò a mia mamma di somministrarmi dosi regolari e abbondanti di olio di ricino.